Una vita in dono

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Claudia Roffino, scrittrice torinese autrice di “Una vita in dono”, è nata da un parto in anonimato. Per il vincolo di segretezza, non conosce sua madre biologica, e, sebbene possa rintracciarla, non vuole, perché sarebbe una forma di ingratitudine e invadenza nei confronti della donna che le ha donato la vita. Racconta la sua storia portando alla luce il tema del parto anonimo: se più donne fossero a conoscenza di questa opzione, si salverebbero molti neonati dall’abbandono, a cui, per disinformazione, spesso madri disperate ricorrono per non essere identificate.

Parto in anonimato, come funziona?

“Il parto in anonimato è un diritto riconosciuto alle donne in Italia dal 1928; è una tutela importante sia per la madre sia per il bambino: consente alla prima di non riconoscere il figlio e garantire il segreto sulla sua identità per 100 anni e al secondo di crescere in ambiente sereno e sano. Nella maggior parte dei casi le donne arrivano in ospedale direttamente al momento del parto e, dopo, l’assistenza diventa quasi inesistente, sebbene dovrebbe avvenire prima, durante, e dopo il parto. Una volta nato e firmati i documenti necessari, il neonato può restare in ospedale (solo per il tempo necessario a garantirne la sicurezza sanitaria) e viene adottato entro il primo mese di vita. I bambini adottati vengono subito accolti da una famiglia e solo in pochi casi si ricorre da una famiglia affidataria temporanea, detta “famiglia ponte” se c’è bisogno di completare qualche pratica burocratica. Per fortuna, al giorno d’oggi sono numerose le coppie disposte all’adozione; ai miei tempi erano molte di meno e i bambini dovevano restare in istituto anche fino alla maggiore età o si doveva ricorre all’adozione internazionale”.

Come ha vissuto la sua adozione? Le è stata rivelata sin da piccola?

I miei genitori adottivi mi hanno parlato della mia adozione con semplicità e naturalezza fin da quando ero piccola, quasi un’eccezione rispetto ad altri tempi, quando si tendeva a non parlarne. Un giorno, all’asilo, una compagna mi raccontò che i bambini crescevano nella pancia della mamma. Così chiesi al mia madre adottiva se anch’io fossi stata nel suo ventre. Lei mi spiegò, con parole adatte alla mia età, che ero nata nella pancia di un’altra donna che non poteva tenermi e che, per questo, mi aveva affidata a lei, che non poteva avere figli a causa di un “incantesimo” alla pancia. Conoscere questa verità  mi ha sempre garantito libertà assoluta.

Tuttavia, crescendo, la consapevolezza di avere degli altri genitori, quelli biologici, mi ha posto delle sfide. Sapevo che da qualche parte esistevano due persone che mi avevano dato la vita, che non erano quelle con cui vivevo. In una società in cui l’adozione era vista solo come un atto di rifiuto, tutto questo mi creò molta confusione e una rabbia che permase a lungo, alimentata dai pregiudizi altrui. Mi sono trovata in difficoltà a conciliare l’idea di due madri e due padri, ma, grazie al sostegno di amici e insegnanti, ho capito che i miei veri genitori erano quelli che avevo avuto sempre vicino e che si occupavano di me ogni giorno. Col tempo, mi sono resa conto che dietro la scelta di mia madre biologica c’era probabilmente un grande dolore. Sono andata nell’istituto dove sono stata per i miei primi mesi e ho cercato di comprendere di più sul fenomeno del parto in anonimato, intervistano ginecologi, assistenti sociali e ostetriche, ponendo domande sulle emozioni che provavano le madri al loro incontro con gli operatori e sulle loro situazioni. Ho realizzato che spesso sono proprio le madri a sentirsi abbandonate, costrette a lasciare i figli per mancanza di alternative, di supporto o per una serie di situazioni difficili e complesse. Da allora ho provato solo compassione per mia madre e per l’inevitabile sensazione di dolore che deve aver provato.

 

Ha mai desiderato incontrare la sua madre biologica? Cosa le direbbe oggi?

Da adolescente sì, volevo incontrarla per trovare risposte e per scoprire di più sulle mie origini, ma anche perché volevo riversare su di lei la mia rabbia. Allora vedevo la sua scelta solo come un abbandono; avrei voluto chiederle come fosse possibile lasciare la propria figlia e andarsene. Oggi, però, se potessi parlarle, le direi solo grazie: grazie per avermi dato la vita e per aver scelto di affidarmi a qualcuno che poteva offrirmi l’amore e le possibilità che lei, forse, non poteva darmi.

Oggi, una sentenza italiana consente ai figli adottivi di “interpellare” la madre biologica, chiedendole se desidera mantenere o meno l’anonimato. Trovare e interrogare la madre è una prospettiva che non condivido: è una forma di invasione nei confronti di una scelta che lei aveva voluto preservare.

Cosa l’ha spinta a scrivere un libro sulla sua esperienza?

Ho pensato che non solo i genitori, ma anche i figli adottivi sentano il bisogno di raccontarsi. Se esistono tante storie sull’adozione, pochissime sono quelle legate al parto in anonimato. Ho scritto per far conoscere questa realtà e per raccontare cosa significa davvero essere figli adottivi di una madre che ha partorito in segreto, oltre che per diffondere l’esistenza di questa possibilità che purtroppo è ancora poco conosciuta.

 

Di cosa parla il suo libro e qual è il messaggio principale?

Il libro è suddiviso in capitoli dispari, che narrano la mia vera storia di adozione, con tutte le gioie e le difficoltà, e in capitoli pari, in cui ho immaginato la vita della donna che mi ha messo  al mondo, chiamandola semplicemente ‘Donna’, con la D maiuscola. Donna rappresenta tutte le donne che hanno scelto il parto anonimo. Ho creato una storia che tenta di avvicinare all’umanità di questa scelta. Sottolineo inoltre un messaggio fondamentale: è importante dire al figlio adottivo la verità fin dall’inizio. Il vero genitore non è tale solo perché procrea, ma perché si dedica con amore e responsabilità al proprio figlio. Infine, il parto in anonimato non dovrebbe essere giudicato: è un atto di coraggio e responsabilità, una scelta di amore verso il figlio quando non si è in grado di garantirgli ciò di cui ha bisogno.

Quali motivi spingono una donna a scegliere il parto anonimo?

Le motivazioni sono cambiate negli anni. Quando sono nata io, nel 1966, spesso si trattava di ragazze madri non accettate dalla società, prive di mezzi per mantenere un bambino e con genitori ostili a quella gravidanza. Oggi, in Italia, sono di più le donne straniere a scegliere il parto anonimo. Ad esempio, per donne dell’Est che lavorano come badanti in Italia, tornare in patria con un figlio nato fuori dal matrimonio potrebbe essere impensabile. Anche per alcune ragazze musulmane, il rischio di ripudio o peggio, come avvenuto in recenti e tragici casi di cronaca, rende impossibile la maternità.

 

Parto anonimo e attualità: perché molte giovani madri non ne sono a conoscenza e ricorrono a soluzioni estreme?

L’ informazione sul parto in anonimato è ancora molto scarsa. Si parla molto di contraccezione e aborto, ma quasi mai di questa opzione. La Regione Piemonte ha fatto progressi, distribuendo opuscoli multilingue come ‘SOS Parto Segreto’, ma si tratta di un’iniziativa isolata.

Per una legge in vigore dal 2014, i figli possono chiedere di conoscere l’identità della loro madre biologica che ha partorito in anonimato al compimento dei 25 anni, e questo spaventa moltissime madri. Temendo di essere rintracciate, alcune scelgono soluzioni disperate e pericolose, come abbandonare il neonato in luoghi pubblici, spesso mettendo a rischio la vita del bambino e la propria durante il parto. Il numero di bambini abbandonati, vivi o morti, è in crescita. Però mi preoccupa ancora di più un numero che non compare nelle statistiche: quello di tutti i bambini che non troviamo e che non sappiamo più nulla e il numero di tutte quelle donne che hanno partorito senza alcun supporto, fisico ed emotivo. Non essendoci nessun dato, per le statistiche questo numero è pari a 0. Zero, matematicamente, è un insieme vuoto. Ma in questo caso è un insieme pieno di bambini e donne di cui siamo tutti responsabili.

Di recente, un gesto estremo compiuto da una giovane madre nei confronti dei suoi neonati ha scosso l’opinione pubblica. Ma mi domando se, con una maggiore conoscenza del parto anonimo, un gesto simile sarebbe mai accaduto. Dobbiamo informare i giovani e, soprattutto, liberarci dal giudizio verso le donne che compiono questa scelta, una scelta di bene e di coraggio, non di abbandono.

Beatrice Cattarossi



Il Salice

Il “Salice” nasce nel 1985. Negli ultimi sette anni sono stati pubblicati più di 2000 articoli online.


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