“Shark Nets”: la grande minaccia dei mari
“Sembra che gli squali, quando ci aggrediscono, lo facciano a causa di un fraintendimento, oppure è colpa nostra. Ci scambiano per una foca, oppure fiutano l’odore del sangue, uscito da una preda trafitta dal dardo di un subacqueo. Noi, invece, uccidiamo gli squali, scientemente e consapevolmente, perché l’uomo, sì, che può essere cattivo, e con gli animali lo è spesso, e purtroppo con gusto!”- Giorgio Celli
L’Australia è il paese che ad oggi ha assistito al maggior numero di decessi a causa degli attacchi di squali. In modo tale da preservare le vite dei bagnanti e dei surfisti, a partire dal 1937, in Australia venne proposto un programma, già messo in atto nel 1904 a Durban, che prevedeva l’utilizzo di reti il cui scopo era quello di ridurre la probabilità di un possibile incontro con i bagnanti.
Un sistema che “sembrava” risultare essere efficace da una parte stava danneggiando irrimediabilmente l’ecosistema marino, portando alla morte non solo degli squali che si impigliavano alle reti ma anche di tutte le creature marine che nuotavano in quelle acque.
A breve si accorsero della reale inutilità delle reti, in quanto le shark nets non sono destinate a formare una barriera completa e gli squali possono trovare un modo per attraversarle. Quindi non solo le reti uccidono le specie protette della fauna marina australiana, ma non garantiscono nemmeno la protezione dei bagnanti. Non fungendo effettivamente al loro scopo, ci si dovrebbe chiedere, allora, il motivo per cui continuare ad usarle inutilmente. Al momento, il Queensland è l’unico stato rimasto in Australia che sembra non voglia rinunciare a questo programma. Sono ottantuno le balene ufficialmente catturate e impigliate nelle “shark nets” del Queensland dal 2001, di cui sei nel corso di questa stagione. Tutto ciò provocò la fondazione di numerose campagne, quali la “Sea Schepard”, la cui missione è quella di proteggere le specie interessate e mettere luce sulla natura distruttiva di questi progetti di controllo.