Pietro Piglione, ricerca del lavoro vincente
Ma i giovani conoscono veramente abbastanza il mondo del lavoro? Nell’immaginario comune la ricerca do un’occupazione viene spesso sintetizzata nel singolo atto del colloquio di lavoro e la stessa stereotipizzazione di questo momento ha allontanato i giovani dal seguire le molteplici evoluzioni che hanno ribaltato negli anni questo sistema. Non si può e non si deve ignorare il cambiamento che un mondo sempre più iperconnesso ha portato in questa dinamica, cambiamento che ha reso protagonisti valori ed elementi nuovi come le soft skills, competenze trasversali legate all’intelligenza emotiva e alle abilità naturali, il network, ovvero la rete di conoscenze soprattutto nell’ambito professionale e il self marketing, l’arte del sapersi vendere. Oggi dare una buona impressione di se stessi al colloquio non basta più, anzi diventa solo un ultimo e marginale step del lungo iter della ricerca del lavoro. “Cercare lavoro è esso stesso un lavoro” dice più volte Pietro Piglione, principal in fondo di credito ed ex studente del Liceo Classico di Valsalice, a cui abbiamo fatto qualche domanda sul tema.
Quanto sono consapevoli i giovani oggi delle dinamiche interne alla ricerca del lavoro?
La realtà è che dipende dall’università che si frequenta. Alcune si spendono di più nel preparare gli studenti a quello che sarà il mondo del lavoro: spiegano come si cerca un lavoro, come utilizzare il proprio network e come pensare alle proprie scelte lavorative; altre invece non hanno quelli che si chiamano servizi di placement, ovvero l’inserimento dei laureati nel mercato del lavoro, tutte però hanno di solito dei contatti con aziende specifiche e questo in un certo modo è sempre un buon supporto iniziale. Rispetto alla mia esperienza personale, una università che ho frequentato come scelta strategica non aiutava molto gli studenti a cercare lavoro perché vigeva l’idea del “I migliori emergeranno da sé”, mentre un’altra era orientata solo a far trovare lavoro ai suoi studenti, a massimizzare i loro network e i loro contatti con le aziende. Per cui dipende molto dall’università.
Hai appena parlato di “network”, come si fa costruirne uno?
il Network lo si costruisce ogni giorno a tutte le ore, si può fare attivamente, ovvero conoscendo persone del proprio settore nello specifico. Ad esempio con mezzi come Linkedin, ma in generale più persone si conoscono più quelle persone conoscono altre persone. Perciò costruire un network è una cosa che si fa tutti i giorni semplicemente nell’essere aperti al mondo e aperti alle persone. “Chi trova un amico trova un tesoro” anche perché quel tesoro è parte del network ed esserne parte vuol dire essere potenziali porte che ciascuno di noi può aprire per chiunque altro.
Molti datori di lavoro di grandi aziende hanno dichiarato l’importanza maggiore delle soft skills rispetto alle competenze tecniche, cosa ne pensi?
Sono in parziale disaccordo. Anch’io penso che le soft skills siano fondamentali, io in primis sono più portato per queste rispetto alle hard skills, è senza dubbio importante avere molta passione, far vedere che c’è voglia di mettersi in gioco e avere la capacità di apprendere in fretta. È importante sapersi interfacciare con un team e lavorare come fate anche voi nella redazione, quindi in maniera collaborativa, ma anche rispettando una gerarchia e il proprio ruolo all’interno della macchina che è il posto di lavoro: in quello sono d’accordo. Non sconterei però le hard skills; secondo me molti lo dicono perché da datori di lavoro di grandi aziende non si accorgono che tutti i candidati che vengono selezionati si trovano all’interno di un pool di candidati che ha tutte quelle competenze tecniche di cui hanno bisogno. È vero che tutto si può insegnare ed è vero che una persona intelligente e rapida nell’apprendere può imparare tutto, ma fino ad un certo punto. Secondo me viviamo in un mondo che favorisce la specializzazione dopo un certo numero di anni per cui è anche importante avere specialisti che sanno quel che fanno e che conoscono precisamente la materia di cui si occupano.
Cosa ci si aspetta invece da un buon datore di lavoro?
La cosa più importante è che ci sia un ambiente di lavoro costruttivo, che aiuti un individuo a formarsi e ad emergere e che sia sempre rispettoso delle condizioni individuali di ciascuno. Le condizioni necessarie sono il rispetto, la formazione e l’avere un lavoro che abbia un impatto sulla società, che sia importante per il sistema e per gli altri. Ecco, questa secondo me è una grande sfida per il datore di lavoro, far vedere come si rientra all’interno del sistema e perché il tutto contribuisce al benessere generale e non solo particolare della persona o dell’azienda.
Consigli su come sapersi vendere bene?
Il venditore nell’immaginario collettivo è una persona molto noiosa che ti mette il piede nella porta e ti forza a guardare il proprio prodotto; questo tipo di venditore stereotipato secondo me non è un buon venditore. L’essere bravi a vendersi vuol dire essere consci delle proprie qualità che sono in demand (molto richieste), però allo stesso tempo non cercare di venderle a tutti i costi, di parlarne con tutti solo per farsi vedere; prima di tutto bisogna instaurare una relazione personale. Quando io mando il primo messaggio non invio quasi mai subito il CV, cerco un contatto fisico, chiedo prima di prendere un caffè o un pranzo assieme. Poi dopo, a mano a mano che si è superata quella prima reticenza che tutti hanno nell’aprire un nuovo contatto, si cerca di inserire nella conversazione il motivo professionale per cui ci siamo incontrati.
Ci viene continuamente insegnato l’essere umili quando si entra in un posto di lavoro, ma allo stesso tempo l’avere faccia tosta per cogliere tutte le occasioni, in quale rapporto questa umiltà e questa sfacciataggine coesistono?
Io penso che il modo migliore per comportarsi sul posto di lavoro sia quello dell’umiltà consapevole, cioè essere consci di ciò che si sa fare e ciò che si fa e allo stesso tempo saper di non sapere, sapere di non essere una persona perfetta, perché è proprio questa umiltà che spinge al miglioramento. E’ fondamentale essere consapevoli che si può imparare da tutti coloro che ci stanno attorno. Più che la faccia tosta quindi è la consapevolezza di se stessi e della propria identità che non si può perdere, l’umiltà deve sempre essere filtrata dal saper esporre ciò che si sente e sapere che se una cosa che viene detta è fondamentalmente sbagliata a livello morale o sostanziale è importante tirare una linea e identificare dove si pensa ci possa essere l’errore, dove va fatto un miglioramento e dove si può essere più efficienti. Il rischio di essere troppo umili è proprio quello di cadere in una stasi in cui tutto è statico e fermo, e questa è la morte di un’azienda.
Una previsione su come cambierà il mondo del lavoro tra 5 anni.
Secondo me cambierà molto profondamente, l’intelligenza artificiale avrà un impatto importante e ribalterà questo mondo nel profondo. Ad esempio le modalità in cui certe mansioni vengono fatte e la loro efficienza. Io sono più positivo su questo impatto, come tutte le rivoluzioni industriali penso che si porti ad un efficientamento del sistema, però è sicuramente un tema che andrà gestito con molta attenzione dalle aziende, dai governi e dagli stessi lavoratori.
Cosa ti ha lasciato Valsalice?
In termini di soft skills di cui abbiamo parlato prima mi ha lasciato grandi capacità interpersonali, possiamo dire che a Valsalice c’è una cultura, un modo di interfacciarsi con le persone e una riflessione estremamente profondi che sono spesso persi altrove, quindi anche la capacità di parlare con le persone ad un livello più profondo e poi l’affrontare il duro lavoro.
Un’altra cosa che Valsalice, ma in particolare il Salice, mi ha lasciato è sicuramente la fonte del mio primo network, le persone che voi vedete oggi tutti i giorni, probabilmente saranno molto importanti nella vostra vita futura personale, ma in certi casi anche professionale.