Variazioni mattutine

Al termine di un breve corso di scrittura svolto con alcuni redattori del Salice, proponiamo alcune rapide narrazioni che hanno come punto di partenza il viaggio mattutino verso la scuola. Variazioni sul tema per racconti sintetici elaborati in una mezz’ora appena.
di Costanza Castorina
La mattina è la prima sfumatura chiara che decide di mostrarsi nel cielo cobalto: sgretola i sogni fanciulleschi, e risveglia l’anima assonnata.
Quella sfumatura è una dolce ragazza, con due spiragli di cielo, che incorniciano il volto, grandi come il suo cuore: si avvicina alle orecchie di tutti gli uomini e donne e soffia sul viso, come il vento che smuove l’acqua quieta del mare.
Il piumone, intanto, avvolge il corpo in un caldo abbraccio, sussurra parole dolci e incita a restare lì con lui, per sempre.
Il piumone purtroppo, come un giovane innamorato, sa di dover lasciare il suo amato.
Inizia di nuovo tutto: un lettore comincia un libro, uno studente ripercorre la strada verso scuola, un anziano rivive nei ricordi.
Può sembrare monotono, ma la mattina è tutto tranne monotonia.
La mattina è per tutti una disillusione, un brusco inizio che frantuma la leggerezza (e non
la superficialità).
La mattina è l’antagonista di una storia, della nostra storia.
A primo impatto è insopportabile e insolente, ma negli abissi della profondità è semplicemente un petalo nascosto, dai colori brillanti invisibili agli occhi di tutti.
La mattina è la vita, la vita che non si stanca mai di plasmare le nostre personalità, la vita che volta pagina ogni volta che qualcosa non va come dovrebbe andare, la vita che è una perpetua scoperta.
La scoperta, ecco cos’è la mattina.
La mattina è la scoperta di sè stessi, del modo che ci circonda, dei sogni notturni, piccole lucciole dell’anima che protestano per vedere la luce.
Allora indosso le scarpe di ogni mattina, afferro le cuffie per ascoltare la musica, prendo lo zaino, il dizionario e arrivo alla porta: la luce fioca traspira da una fessura, e urla vita.
La mattina è il raggio di sole che nascondiamo tutti noi, l’inizio della nostra vita.
di Elena Ferraris
Eccomi qua, che appena apro gli occhi la mattina vengo subito travolta da tutti i pensieri che mi hanno dato tregua la sera precedente, come se nella mia mente si fosse aperta una diga che frenava quell’enorme flusso d’acqua che non aspettava altro che d’essere liberato.
Procedendo, varcati quei cancelli, quasi involontariamente divento come un soldatino pronto a combattere ogni difficoltà, con successo o meno, ma quello è un altro discorso, e che cerca sempre di dare il meglio di sé.
E allo scoccare delle otto é come se si fosse dato il via a una serie di guerriglie nelle quali tutti, compresa me, cercano di destreggiarsi il meglio possibile, tentando di sopravvivere, distinguendosi in chi riesce nell’intento furbamente e chi invece zoppica un po’ di più. Io mi identifico in quelli di mezzo, mi sento come uno dei tanti soldatini richiamati all’ordine che fanno quel che viene chiesto e allo stesso tempo cerca di emergere. Nonostante qualcuno possa averlo pensato, non è un modo futile di descrivere come ogni studente si prostri per affrontare la scuola; ognuno, a suo modo, affronta ogni giornata di scuola come una sorta di battaglia servendosi di carta, penna e… perché no, anche di un’armatura.
di Greta D’Intino
Dal dipinto in continua evoluzione delle foglie in discesa verso la terra fino alla stagione del sale impregnato nell’aria, due ore dopo il sorgere del sole risuona nel silenzio assordante un suono frenetico ed elettronico che scuote la mia mente per farla tornare alla sua consueta attività in modo tale da destare il mio corpo dall’inerzia.
Dopo aver bevuto un caffè per scuotermi dal torpore del sonno ed essermi preparata adeguatamente, ammiro dal finestrino della macchina la città che lentamente prende vita nelle prime luci del mattino.
Mi sembra che questa routine stia entrando in un circolo vizioso di ripetitività, che sta piano piano cominciando a rendere quasi tutte le mie mattine prive di qualunque tipo di novità.
di Beatrice Cattarossi
Spine di ghiaccio mi si conficcano in viso. Fa freddo; non riesco a muovere le mani, sono doloranti, come tagliate da lame di fuoco ghiacciato. Strati di tessuto sul volto cercano di ripararmi dal vento gelato, mentre avanzo, gravato sulla schiena dal peso delle pagine su cui passerò le prossime sei ore. Cammino, sguardo basso; mi bruciano gli occhi, ora mi piangono, ma almeno le lacrime mi intiepidiscono le guance. Non riesco ancora a vedere la scuola, per quanto possa camminare. 07:56, accelero. Sguardo basso, mi bruciano ancora gli occhi. Arrivo davanti al cancello: mi osservano ripide scale. Immobili, statiche, fredde. Faccio lentamente un passo alla volta, un gradino alla volta. 07.58. Devo correre. Arrivo in cortile, percorro il portico, apro la porta: altre scale, altrettanti scalini, altre rampe di scale, e infine ultimo gradino. 07.59, sono in corridoio. Riprendo fiato, rallento; ormai sono arrivato. Suona la campanella, il professore non è ancora in classe. Poso lo zaino, mi siedo. Mi scaldo le mani, mi asciugo gli occhi: sono arrivato.
di Giorgia Orlandi
Neve. Ecco quello che vedi ogni mattina mentre percorri quel familiare flusso delle onde che ti porterà a scuola. Le loro creste ti cullano in un dolce movimento, mentre osservi il paesaggio circostante completamente innevato e le macchine che assomigliano a banchi di pesci che nuotano caoticamente verso la loro meta.
Sceso dal pullman inizi a vedere da lontano i contorni indefiniti della scuola. Non è solo un edificio di mattoni, ma un luogo che pullula di storie non ancora raccontate. Ogni faccia che incroci nei corridoi, ogni parola sussurrata, ogni gesto compiuto, è come un pezzo di un puzzle che prende forma nel corso della giornata. Un respiro profondo prima di entrare in classe e incomincia la giornata.
di Tommaso D’Onofrio
Esplorare diverse zone della città. Partire quando intorno dominano ancora il silenzio e il buio, quando l’uomo sembra non esistere. Ecco, questo è l’opposto di ciò che il destino ha scelto per me. Quando sbatto la porta di casa è giunta quella canzone, per cui vale tutto il concerto. Sono in mezzo agli alberi, gli uccellini già fischiettano, il sole cerca di uscire dalle spalle delle colline. Così scendo per la strada che mi porta in un’altra dimensione, dove governano il rumore, l’isteria dei guidatori inchiodati coi loro mezzi mentre imprecano contro sconosciuti, l’aria soffocata dall’inquinamento cittadino. Per poco tempo attraverso questa selva bruciata, in cui di selvaggio rimane ben poco. In un lampo entro ancora in un nuovo mondo, colmo di persone al suo interno, tutte che si recano verso un luogo differente. Non c’è pausa, nessuno aspetta, tutti vanno dritti verso il loro obiettivo. Così come loro anche io sono giunto a Valsalice.
di Marco Magliano
Edera. Era semplice edera. Una comune pianta lianosa sempreverde con fusto prostrato.
Da quel momento, in uno scuotimento persistente e molesto m’apprestavo a prendere per l’ennesima volta quel volo, che colmo di vento, non poco turbava anche la povera pianta. E in un attimo ero lì da solo, o meglio, stretto come in una morsa dai miei pensieri. E ad ogni falcata che passava in rassegna al tempo appena vissuto riprovavo lo stupore per la mia incrollabile, ma necessaria e naturalmente ordinaria, caparbietà: il riuscire a essere ad ogni aurora in quello stesso luogo di questa immensa e inopinabile vita, nello stesso punto di una venatura dell’immane e precaria pianta rampicante, pur contro la mia impotente volontà. Pensavo così, scorgendo fuori la foglia che s’accingeva a lacrimare come alla stessa maniera mi guardavo dentro. Osservavo la mia condizione non così estranea a quella piccola e limitatissima foglia: così attaccata alla superficie, per ogni suo filamento, in tutta la sua essenza e così totalmente affranta; in quel giorno che pareva disanimato. Il mondo mi sembrava immobile mentre tutto captavo essere al mio interno. Ma da un tratto, dato l’arrivo della brezza, salito su quell’assordante mezzo pubblico, tutti i suoni da un primo piuttosto fievole quanto breve, si unirono in un coro e così si riaprì il mondo che solo l’attimo prima, quasi come una speranza, pareva, con una semplice camminata contro il tempo e il pericolo, pareva essersi dissolto.
Il vento, rinomato per la sua risolutezza nello scombussolare le semplici foglie mi aveva cullato, ma allo stesso modo donato troppo poco per poter esserne soddisfatto: infatti in un baleno ero già lì, troppo presto, dinanzi al tempio per il quale tante anime passano chiedendo pietà per le sei ore successive. Quel marmo, quella colonna, quel pilastro, quella dannata dimora dei Penati che anche oggi mi attornia, mi accoglie e ogni volta arrivato a questo segno usualmente mi trafigge. Dal sommesso e prostrato cancello che lancia sguardi a quel tempietto, sguardi analoghi ai miei, riesco a sentirlo, si avvicina: avvisto l’empio Pirro che sull’altare di questa area sacra compie sacrilegi ponendo fine alla vita del vecchio Priamo. Così, anche io, mi ridesto, da quell’atteggiamento sedato che mi aveva accompagnato per i delicatissimi atti che avrebbero preceduto questa rovina. Non sopporto la bassissima ascesa che conduce al quotidiano sacrilego atto, durante la quale devo alzare il mento e osservare il cielo con una fastidiosa ma profonda malinconia e ritrovare la mia libertà celata, segregata dalle nubi, sempre più da me distante. Ancora un attimo, ancora un momento l’occhio, ghiacciato dal tempo, scalpitante per il momento, indugia, tentando un’affannosa e disperata e determinata ricerca di un appiglio per provare a nascondere a sé stessa l’ignobile Pirro. Perciò scova dell’edera, che nuovamente le rimembra non poco la condizione dell’essere in cui è posta: è così totalmente affranta, ma così attaccata e devota, così caduca, ma così fermamente tenace. L’uomo, soltanto in questo modo, sollevando il capo e mettendo il resto da parte, ha la possibilità di riscoprire la pianta, di comprenderla, di trovare in conclusione ciò che più è a lui affine e più lo rispecchia.
Questa è l’edera della vita: fragile fuori, forte dentro.