Il delitto e la pena

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di Francesco Buzio

Già nelle primissime comunità organizzate, la pena capitale rappresentava una delle più comuni e “semplici” punizioni da applicare contro reati di vario genere: la prima raccolta di leggi della storia a noi nota, il Codice di Hammurabi, codificava la pena di morte per venticinque reati, tra i quali stranamente non compariva l’omicidio. Qualche millennio in seguito, nell’Urbe dell’età repubblicana per i cittadini romani era prevista la condanna per decapitazione, mentre per i non Romani la crucifixio (crocifissione); successivamente, in età imperiale, questa pena assunse una patina di spettacolarità manifestata in supplizi come la damnatio ad bestias, comunemente inflitta ai martiri cristiani. Se invece ci spostassimo una dozzina di secoli più avanti scopriremmo che la pena di morte era una delle armi preferite dal tribunale dell’Inquisizione che dal tredicesimo secolo alla fine del diciottesimo mieté 12.000 vittime documentate. Similmente nelle grandi dittature del Novecento queste condanne vennero esercitate liberamente dai Capi di Stato contro dissidenti politici e varie minoranze. Infine, in Italia la pena capitale è stata abolita dal 1948 in tempi di pace e nel 2007 è stata eliminata anche dal codice militare di guerra. Nel resto del mondo nel 2021 sono stati 56 gli Stati ad emettere condanne a morte.

Al giorno d’oggi i principali sostenitori della pena capitale sono certi che questa sia un forte deterrente per le altre persone; a questa teoria però già si oppose nel 1764 Cesare Beccaria nel suo “Dei delitti e delle pene” in cui sosteneva che uno dei freni al delitto non deve certo essere la crudeltà ma la certezza della pena. Inoltre pensava che le pene dovessero riuscire a lasciare un’impressione indelebile negli uomini senza tuttavia essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate.

Non sono in pochi a ritenere che i dettami del sopra citato intellettuale di fine Ottocento siano incredibilmente attuali ancora oggi: se una pena dovesse realmente essere utile per la società, la sua funzione principale dovrebbe essere certamente quella di rieducare il reo senza adottare provvedimenti eccessivi come togliere a quest’ultimo la vita, senza contare che il diritto alla vita è fondamentale e dovrebbe essere garantito a tutti. Inoltre, anche se questi provvedimenti venissero applicati non farebbero altro che creare un nuovo lutto in una nuova famiglia oltre a quello che ha probabilmente già creato il condannato.

Oltre a ciò, uno studio condotto dal 1973 al 2004 negli Stati Uniti e pubblicato sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” ha dimostrato che il 4% dei condannati a morte in quegli anni era in realtà innocente. Di queste 340 persone poi, “soltanto” 183 furono poi effettivamente giustiziate. In conclusione dovrebbe essere pensiero comune il fatto che, se anche solo una persona è stata privata della propria vita per un errore commesso durante le indagini, la pena capitale sia una pratica selvaggia ed eccessiva e dunque totalmente inammissibile in una società che ama definirsi innovativa e addirittura superiore ad altre.

Redazione



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