Caselli, una vita contro la mafia e il terrorismo
di Arianna Chiarloni e Federica Furlan
Tornato a Valsalice, dove ha conseguito la maturità classica e si è sposato, il Procuratore Generale Caselli ha trovato il tempo di poterci raccontare la sua incredibile vita e la sua testimonianza riguardo gli anni cosiddetti “di piombo” e sulla mafia.
Entrato in magistratura nel 1967 ed andato in pensione alla fine del 2013, Caselli è ancora una figura di riferimento per i magistrati che hanno lottato contro il terrorismo, in particolare le Brigate Rosse e Prima Linea, istruendo i processi a Torino. Nel 1992, in piena emergenza dopo le stragi mafiose, chiede di venir trasferito a Palermo dove assunse la carica di Procuratore Capo.
Inizialmente figura di giudice istruttore dal ’74 all’83, nel 1986 al 1990 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura e dopo la riforma del procedimento penale, che elimina la figura del giudice istruttore, sceglie di rimanere nella magistratura inquirente, funzione che ha sempre mantenuto.
Appena entrato in Magistratura, ha la fortuna di poter lavorare con Bruno Caccia ancora adesso figura di riferimento per la magistratura piemontese; da lui impara “il mestiere” di inquisitore, il rigore logico, l’etica e la responsabilità del suo compito che lo accompagneranno per tutta la sua attività lavorativa.
Gian Carlo Caselli e la lotta contro il terrorismo
Gian Carlo Caselli è stato protagonista della lotta contro il terrorismo a Torino, in particolare, ha lavorato come giudice istruttore nella città dove, per un decennio (dal 1974 fino al 1983), ha condotto le inchieste sulle Brigate rosse e Prima linea. Oltre a realizzare numerosissimi processi, ha raccolto le prime confessioni dei collaboratori di giustizia Patrizio Peci e Roberto Sandalo, grazie alle quali fu avviato lo smantellamento progressivo delle Brigate Rosse e di Prima Linea in tutta la penisola.
Nel raccontare del suo percorso lavorativo, Caselli cita oltre Bruno Caccia, anche Mario Carassi, da cui Caselli ha imparato l’etica. Caccia è stato uno dei suoi primi punti di riferimento, un mentore e maestro. L’ideologia che legava i sue due grandi maestri si fondava principalmente su due concetti principali: giustizia e libertà, che saranno gli stessi principi che Caselli seguirà per combattere e affondare il terrorismo in Italia.
Brigate Rosse contro lo Stato
Caselli prosegue il discorso presentando alcuni degli episodi che hanno segnato la storia italiana e che hanno portato Torino ad essere la sede dei processi contro l’eversione di sinistra e lui ad assumere un ruolo centrale nei processi dei capi storici.
Il primo che cita è il sequestro di Mario Sossi da parte delle Brigate Rosse: nell’aprile del 1974 un gruppo di venti terroristi sequestrarono il magistrato a Genova e denominarono l’accaduto come Operazione Girasole.
Due anni dopo invece, nel 1976, le Brigate Rosse uccidono Francesco Coco, magistrato e procuratore generale presso la Corte d’Appello di Genova, e due uomini che costituivano la sua scorta. Coco, continua Caselli, era un uomo libero, aveva la scorta ma camminava per le strade della sua Genova senza preoccupazioni. Le Brigate Rosse lo hanno colpito come simbolo per farlo cadere così dal piedistallo su cui lo Stato lo aveva posto.
Nel 1978 le Brigate Rosse sequestrano e uccidono, dopo una cinquantina di giorni, Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, con altri cinque membri della sua scorta.
Le Brigate Rosse infatti pretendevano di essere riconosciute come uno Stato parallelo, e alle radici del loro operato si trovava un vero e proprio fanatismo ideologico (“La lotta armata non si processa, la rivoluzione non si condanna, e chi prova a fare ciò, a portare avanti i processi, avrà del piombo”).
Rispetto agli altri paesi però, prosegue Caselli, l’Italia può rivendicare di essere stata il paese dell’anti-terrorismo, di aver sconfitto il terrorismo rispettando il dettato costituzionale. E questo si è potuto ben vedere dal lungo processo tenutosi contro l’organizzazione terroristica delle Brigate Rosse.
Inizia nel 1976 e verrà rinviato due volte: la prima volta dopo l’assassinio del procuratore Francesco Coco e la seconda, nel 1977, dopo l’assassinio del Presidente dell’Ordine degli Avvocati torinesi Fulvio Croce.
Torino era terrorizzata, e questa angoscia avrebbe lasciato vincere i brigatisti. La paura regnava nei cittadini tanto che non si riuscivano a trovare neanche i sei giudici popolari che avrebbero dovuto partecipare al processo. Nel 1976 il processo iniziò contro alcuni membri delle Brigate tra cui Curcio, Alberto Franceschini e Paolo Ferrari. Tutti gli imputati detenuti revocarono il mandato ai loro difensori e minacciarono di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio. A questo punto, il presidente della Corte d’Assise, Guido Barbaro, vista la difficoltà di prevenire alla nomina di difensori, incarica della difesa d’ufficio l’avvocato Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, il quale sceglie degli avvocati d’ufficio per le Brigate Rosse.
Il processo vero e proprio invece inizia nel marzo 1978 a Torino, dopo l’assassinio di Croce, quando si inizia a comporre la giuria (con Adelaide Aglietta, segretaria del Partito Radicale, che dopo esser stata sorteggiata, a differenza di molti altri accettò di far parte della giuria), e si conclude nel rispetto assoluto delle regole, seguendo la legislazione e la giustizia.
Guido Barbaro aveva capito che per venire a capo di questo processo bisognava riconoscere l’identità politica dei brigatisti, “solo così avrebbero potuto tagliare l’erba sotto i loro piedi”.
Gian Carlo Caselli a Palermo
Le stragi che portarono alla morte di Giovanni Falcone (23 Maggio 1992) e di Paolo Borsellino (19 Luglio 1992) e della loro scorta scossero profondamente l’opinione pubblica rilevando che lo Stato non era stato capace a reagire con efficacia alla sfida che la mafia aveva portato contro gli uomini simbolo della democrazia.
La risposta della magistratura fu compatta e veloce tanto che nel gennaio del 1993 Caselli chiese di andare presso la procura di Palermo per affiancare i pubblici ministeri e fu nominato Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Applicò a Palermo lo stesso metodo di indagine grazie al quale lo stato era riuscito a sconfiggere le Brigate Rosse: metodo che consisteva nel condividere le informazioni tra tutti i magistrati ed analizzare le fonti di coscienza in modo da canalizzare le indagini verso obbiettivi sensibili e concreti.
Creò così il pool antimafia composto da giovani magistrati fra cui Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato e Alfonso Sabella grazie ai quali riuscirono ad arrestare alcuni dei più importanti boss, all’epoca latitanti quali Brusca, Spatuzza, Graviano. A Caselli si deve l’allargamento delle indagini alla cosiddetta “cupola”, cioè all’individuazione dei politici collusi con la mafia.
Dopo sette anni a Palermo è stato nominato capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è diventato rappresentante italiano in Eurojust, sollevando il velo delle infiltrazioni mafiose anche in Europa, per poi ritornare a Torino prima come Procuratore Generale del Piemonte e poi, in tandem con Marcello Maddalena, come Procuratore Capo del Procura Torinese.
La sua umanità è risultata evidente negli aneddoti che ha raccontato sulla sua vita a Palermo, anni duri per la difficoltà di incontrare i suoi famigliari ma compensati da un grande affiatamento con le persone con cui lavorava, a partire dalla scorta che lo seguiva e lo proteggeva in ogni occasione, sia che ci fosse da muoversi per partecipare ad un convegno od andare a fare sopralluoghi.
L’incontro è stato occasione per conoscere dalla voce del protagonista un periodo molto importante della storia recente della nostra Repubblica, forse il momento in cui fu più a rischio la tenuta della nostra democrazia perché la sfida che le Brigate Rosse lanciarono contro lo Stato Italiano, poteva far scivolare l’Italia verso una politica autoritaria con la limitazione delle nostre libertà costituzionali, ed è merito di persone così cristalline se la democrazia ha vinto la propria lotta contro i gruppi eversivi.