Le leggi per noi
di Caterina Iervese
Ci sono poche certezze nella vita. Una di queste è che prima o poi ci si imbatterà nella scritta “La legge è uguale per tutti”, come insegna in ogni tribunale o corte giudiziaria. “Sempre meglio ricordarlo”, diranno alcuni.
L’articolo 3 della nostra Costituzione – tra i principi fondamentali – attribuisce all’uguaglianza degli uomini due caratteri distinti: quello formale e quello sostanziale. Viene da chiedersi in cosa consista questa diversità: semplicemente, il secondo è specificazione del primo.
I partiti dei Padri costituenti – tendenzialmente di centro e sinistra, in un contesto post guerra- , incaricati di dare una nuova voce al popolo, questa volta, finalmente, messa per iscritto, hanno preferito evitare ogni qual tipo di fraintendimento, fornendo precisazioni per ogni articolo. Ed è così che “L’Italia è una repubblica democratica”, ma anche “La sovranità appartiene al popolo” (Articolo 1), e poi “Ogni uomo ha diritti inviolabili riconosciuti”, ma anche, e soprattutto, “garantiti” dallo Stato (Articolo 2). E quindi, oltre ad indicare la parità della dignità sociale e l’uguaglianza di ciascuno, serve aggiungere “senza distinzione di sesso, di razza, di lingue, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma si può davvero parlare di dignità dell’uomo anche se in Italia non basta dire “è vietato”, ma è meglio aggiungerci un “severamente”?
Un’altra parte dell’articolo, però, salta all’occhio: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli […] che […] impediscono il pieno sviluppo della persona […] e l’effettiva partecipazione […] all’organizzazione […] del paese”. E’ una grande responsabilità, dunque, quella di cui si fa carico lo Stato, ma, inutile dirlo, è di fondamentale rilevanza per noi.
Anche negli anni ‘50, infatti, vigeva la Costituzione da qualche anno, ma le donne non potevano comunque entrare in magistratura. Di questa lotta è diventata simbolo Rosa Oliva, giurista e studiosa della scienza del diritto (“iuris-prudentia”), che riuscì a esercitare la sua professione solo dopo un lungo processo durato 12 anni e la Corte Costituzionale di mezzo. Molti progressi, senza ombra di dubbio sono stati fatti da allora, ma solo alcune questioni c’è ancora tanto da lavorare.
Si può davvero parlare di dignità dell’uomo anche se una donna giovane sposata fa più fatica ad inserirsi in un ambito lavorativo? Si tratta di una chiara dichiarazione di “individualizzazione” della società, per cui c’è una tendenza media a far prevalere l’ “io” individuo sull’ “io” come membro di una società. Se c’è rischio che possa ritirarsi in maternità e non “produrre”, meglio passare il problema a qualcun altro.
Persiste in questo senso un’idea gerarchica della civiltà, per cui è difficile pensare ad un ventenne con un ruolo rilevante in un’azienda, così come ad un figlio di operai notaio.
Sembra un paradosso per il XXI secolo, ma la mentalità comune pare seguire questa linea. La storia, da buona “magistra vitae”, ci insegna che tutto è destinato a riproporsi in ugual maniera e solo studiando la “costruzione dell’agire dell’uomo”, come diceva Vico, si può evitare.
E quindi si può davvero parlare di dignità dell’uomo anche se l’indice di astinenza dalle urne è sempre più alto? Sembra essersi dimenticati degli anni di proteste di lotte, anche a scapito della vita dei protagonisti, che hanno reso il voto un diritto; ciò non toglie, però, che saresti comunque un dovere di cittadino.
E ancora, si può davvero parlare di dignità dell’ uomo di fronte a tutti i recenti fatti di cronaca, al cui racconto siamo sottoposti ogni giorno?
La risposta, vi sorprenderete, resta comunque sì. La nostra Italia è, in ogni caso, una degna nazione europea dal punto di vista della giurisdizione. Tutto si può migliorare, ma quel tutto dipende innanzitutto da noi: bisogna comprendere che la dignità consiste proprio in una consapevolezza che ciascuno merita rispetto, libertà e uguaglianza, come sosteneva Martin Luther King.